Il problema numero 1 in Italia è il numero dei parlamentari.
Non lo dico io, ma Di Maio, seguito a ruota da altri leader politici. È il primo punto programmatico per il nuovo Governo che forse nascerà. È la discriminante assoluta per l’inizio di ogni forma di dialogo e di confronto tra le forze politiche. Si parte da qui, non si sfugge.
Ora, io lo so che a vedere certi parlamentari vien voglia di dimezzarli tutti (nel numero). Condivido, ad esempio, l’amara analisi di chi, come Alessandro Giglioli su L’Espresso, ha parlato di una crisi che mette in luce innanzitutto la catastrofe di una classe dirigente e la “spaventosa pochezza culturale, etica e soprattutto umana dei protagonisti della politica”.
Ma il punto non è questo.
Anzi, dimezzare il numero degli onorevoli potrebbe addirittura peggiorare la situazione. Per almeno tre motivi.
Uno: tagliando il numero degli eletti si riduce la dimensione della Casta ma, paradossalmente, la si rafforza. Diminuisce il numero degli onorevoli, ma aumenta il potere dei pochi leader di partito che, con modalità diverse, decidono candidati ed eletti. Cosa che, come insegna la storia recente del parlamento dei “nominati”, non va certo a beneficio della qualità dei nostri rappresentanti e, più in generale, della nostra democrazia. Insomma, visti i precedenti ed i criteri di selezione del personale politico da parte di quel che resta dei partiti (la cui democrazia interna è per molti un tema ancora aperto), la regola del “pochi ma buoni” è tutta da dimostrare.
Due: meno parlamentari significa meno territori rappresentati a Roma. Peggio per noi. Molto peggio per noi cittadini dell’Italia “minore”, delle Aree Interne, dei territori rurali. Del resto, la matematica non tradisce. Senza adeguate compensazioni nella definizione dei collegi, infatti, le aree marginali del Paese saranno tagliate fuori a beneficio delle zone urbane e metropolitane dove sono concentrati più elettori. In un colpo solo ci potrebbe essere un Parlamento in cui vengono rappresentate solo le città con inevitabili conseguenze sulle leggi, sui temi affrontati, sui fondi assegnati, ecc… Insomma, come denunciato dall’Uncem, il rischio di nuove sperequazioni territoriali, a causa della concentrazione del potere elettorale nelle zone più densamente abitate, è altissimo.
Tre: il risparmio è davvero limitato. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici, 57 milioni di euro all’anno, pari allo 0,007 % della spesa pubblica. Una goccia nel mare dei conti dello Stato. Un risultato tutt’altro che clamoroso che poteva essere raggiunto semplicemente tagliando sprechi, stipendi, pensioni d’oro, indennità ed altri privilegi che nel frattempo i politici nazionali hanno accumulato. E che non tiene conto dei maggiori costi che,
prima o poi si ripresenteranno sotto altra forma a causa degli squilibri territoriali incoraggiati da questa riforma.
Ecco perché non può essere quello economico il vero motivo della riforma. Ecco perché in un dibattito politico degradato a scontro tra tifoserie opposte (con tanto di cori e slogan) occorrerebbe recuperare uno spazio per la riflessione ed il coraggio delle proprie idee. Se non a Roma, dove si ragiona ormai solo in termini di posizionamenti tattici e sondaggi, almeno nei territori marginali. Dove il rischio di danni irreparabili è maggiore.
Sarà pure impopolare, ma vale la pena parlarne.