*Racconto breve dedicato a chi ama la Terra, a chi raccoglie le olive e a chi ancora porta in campagna i bambini. (Finalista al Premio letterario dei Borghi Italiani ed. 2017).
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Quando Peppino, all’inizio di un tiepido giorno di fine ottobre, tra le tante carabattole stipate in cantina, si è deciso a tirare fuori le grandi scale di legno che furono del padre per legarle alla meglio sul portapacchi della sua fracassata Panda, è perfettamente consapevole che, di lì a breve, provocherà un serio dolore al cuore, già di per sé provato, del caro Zi ‘Nate.
Dopotutto, non ci vorrà molto per essere pizzicato sul fatto. Basterà fare l’inevitabile giro per la piazza del paese con il lungo ingombro coricato sul tetto della macchina, abbellito da uno straccio rosso in punta, per azionare tutto il risentimento orgoglioso del vecchio zio appostato, assieme ai suoi compari, al sole mattutino di un nuovo autunno dauno.
Che Peppino fosse uno zuccone, d’altronde, Zi ‘Nate lo sapeva da sempre. O almeno da quando, con il povero padre lontano infossato a scavare in qualche miniera tedesca, se lo portava, bambino, dietro per i campi, un po’ per compagnia, un po’ per acquietare l’intero vicolo.
Già allora, tra una mora polputa rubata ad un rovo torvo e spinoso ed un fico ancora verde preso a prestito da un ramo affacciato sulla mulattiera che portava al fonte, gli ripeteva i lenti tempi della campagna e gli predicava la Santa Pazienza. E già allora, quella lentezza doveva risultare insopportabile al piccolo e veloce Peppino che, con i calzoni corti e le scarpe rotte, correva in avanti, aspettava il suo precettore e poi di nuovo correva. Come una di quelle molle gialle con cui giocava sulle scale di casa fino a farsi male le dita.
Figuriamoci se può permettersi la lentezza, adesso. Ora, che il peso di una famiglia lo costringe a scappare davvero, ogni santissimo giorno, in giro per queste montagne cattive tra polvere e vento.
Se è possibile però, la testa del Vecchio è ancora più dura. Se nonostante o grazie agli anni, questo non si può dire. Fatto è che – non appena Peppino gira per la piazza cercando di accorciare il collo all’inverosimile, per nascondere la sua di testa, come una di quelle grosse testuggini che cacciava da piccolo, e di guardare dritto avanti a costo di non salutare e di non essere salutato, – arriva, puntuale, la maledizione urlata e bestemmiata di Zi ‘Nate per lo sgarbo subito. È uno dei suoi proverbiali giri di madonne, gesùbambini e santipatroni. Roba che le mamme tappano tutte e due le orecchie ai bambini. Roba impossibile da non sentire. Anche dentro una Panda rumorosa come una pentola borbottante.
Allora il fuggiasco, per nulla sorpreso dalla massiccia voce e dal minaccioso bastone agitato nella grossa mano dell’anziano arrabbiato, per non sapere né leggere né scrivere, stende tutta la gamba destra sul pedale dell’ acceleratore, tanto da scuotere il fazzoletto rosso appeso sull’estremità della scala e le quattro lamiere bianche che lo portano, e scappa via, verso la sua meta fuori paese.
In cuor suo sente tutto il magone di chi sa di aver peggiorato la situazione e, soprattutto, di non aver potuto fare altrimenti.
Lo scatto fulmineo e rumoroso dell’auto, manco a dirlo, irrita ancor di più lo Zio messo forzatamente a riposto che, allo sfregio del suo figlioccio, ora deve aggiungere le risate senza denti dei suoi divertiti compagni. Soltanto uno di essi, Tonine u’ Scarpare, accartocciato su stesso fino a sembrare rotondo, prova a difendere “chella capa tòsté de Peppine“, con il solo scopo – che sia chiaro! – di provocare una nuova caterva di urlacci al grosso socio che quasi gli fa ombra.
Peppino, intanto, ha già raggiunto il pezzo di terra che gli è stato lasciato. Per dirla tutta, non è un granché: un pozzo in pietra mezzo vuoto abbellito da una carrucola arrugginita che divide un misero orto da un’ordinata ed allineata schiera di ulivi pieni di rughe e di gobbe. Tutto qua. Nulla, insomma, che possa avvicinare il padrone ad “uno che ha le terre” o che possa giustificare la spesa di un trattore o di una qualsiasi altra macchina agricola. Non a caso, del resto, la moglie lo ha più volte invitato, con la scusa del troppo lavoro, a dar via quell’inutile accessorio incapace persino di arrotondare il modesto bilancio familiare. Neanche i figlioletti, dopotutto, sembrano subire il fascino di quella piccola oasi verde. Forse perché non hanno fatto in tempo a conoscere il padre del padre o perché nessuno gli ha fatto assaggiare il gusto di una mela cotogna appena colta. O, semplicemente, perché sono già stati risucchiati dalle stupidità che prendono a grandi dosi dall’immenso televisore della sala.
Di certo c’è che Peppino si ritrova solo in mezzo ai suoi alberi. Con una famiglia che non lo riesce a capire ed un caro vecchio secondo padre che non lo deve aiutare.
La cosa ovviamente lo intristisce non poco. Soprattutto se gli capita di pensare alla festa che un tempo si viveva in questi giorni. Intere tribù, come profughi erranti alla ricerca di un terra promessa, si arrampicavano su ciucci e muli per raggiungere al primo raggio di sole i loro alberi fuori paese. Le donne con i cesti del pranzo in mano, pieni solo di qualche pezzo di pane e del fiaschetto di vino rosso. Che tanto il resto della spesa si faceva sicuramente sul posto. I piccoli a scorrazzare sicuri in mezzo a cani di ogni taglia e alla capretta che anche in quella giornata era bene portarsi appresso. Gli uomini, non importa se padri, nonni, fratelli o figli grandi, carichi di tutto quello che non si poteva appioppare ai muli. E poi le canzoni e i cunte che echeggiavano per i campi e i saluti urlati e sbracciati a quelli già arrivati. Che tutti salutavano tutti, prima.
Una lacrima vorrebbe pure scendere sulla guancia asciutta e con poca barba. Ma non è tipo che piange facilmente, Peppino che corre. Anzi, in men che non si dica, ha già scacciato i ricordi, abbracciato il primo piede d’ulivo con una grande raganella verde e piazzato sul ramo più alto la grande scala intagliata con le iniziali del capo famiglia. La sola superstite di quelle lontane giornate che poco prima gli erano tornate in mente e che ora gli formano un nodo alla gola. Nella tasca posteriore della sua tuta blu riciclata dal lavoro, ha già infilato l’attrezzo del mestiere, l’unico che si possa meritare una terra che, come dice la moglie, non porta frutti di carta moneta: il rastrello di plastica. Le sue mani secche e forti, che abituate alla fatica come sono non hanno bisogno di guanti, hanno già avvinghiato il primo ramo colorato da tante piccole biglie verdi o nere. Ed ora lo pettina forte con colpi netti e sicuri che danno inizio ad una specie di grandinata giù, sotto di lui. Il suono delle olive che cadono è una pioggia benefica per l’umore di Peppino. Presto, a terra, circondano il posto dove ha lasciato al fresco qualche bottiglia di birra, un paio di michette con dentro ancora non sa che cosa e il pacchetto di sigarette mezzo acciaccato.
Corre anche con le mani Peppino. Anche perché, in alto sulla scala, tra uno scorcio d’azzurro che si incunea tra i rami e qualche rumore lontano, non vi sono grandi distrazioni, se non quelle portate dai suoi pensieri. Corre e si sbriga. Perché sa benissimo che deve approfittare al massimo di questa ennesima domenica non santificata, scippata al Padreterno ed alla famiglia.
Dal punto in cui si trova, spostando un grosso ramo ormai svuotato, può vedere tutta la sagoma del suo borgo. L’enorme e dominante chiesamadre con l’inconfondibile cappella di maioliche verdi. La torre che ancora la sfida in altezza in una competizione che va avanti da secoli. E la linea irregolare delle case alte e basse arrampicate alla meglio sulla collina. Può solo immaginare cosa accade tra quei vicoli lontani e nel corso principale. Non ci vuole molto a concludere che, data l’ora, la piazza avrà cambiato padroni. Non più i vecchi con la testa bianca ma, dopo che la messa dei bambini è terminata, intere scolaresche senza grembiuli e cartelle. Giovani e piccole comitive che fanno rumore, casino, colore avendo vita facile sullo slargo vuoto che gli si presenta davanti. Seguite, poi, da gente ben vestita che, scendendo dalla Chiesa, si riversa in piazza passeggiando e sparlando come si usa ogni volta dopo una cerimonia.
D’improvviso, in mezzo a tanta gente, Zì ‘Nate si sente spaiato. Sfuso. E non solo perché i suoi vecchi coetanei sono già andati a comprare le paste per poi raggiungere le case dei figli e dei nipoti che se li sono litigati per un’ospitata domenicale. Lui, amato, conosciuto e salutato da tutti, quando si arriva al dunque, in tutto il borgo, non ha nipoti da mettersi sulle ginocchia o figli da far contenti. Se non una volta o due all’anno. Troppo poco, comunque. E così gli arriva questa specie di vuoto dentro.
Fino a qualche mese fa, almeno, aveva il suo orto da mandare avanti, i cani da accudire e, soprattutto, lo sbadato e svelto figlioccio da seguire. Ma ora che tutto questo gli è stato proibito da un dottorino di città, per giunta alleato con il suo Peppino, cosa deve fare?
Non c’è la fa Zi ‘Nate a darsi una risposta diversa. E neanche ad arrendersi. Lui ha fatto la guerra, ha conosciuto la fame, ha visto seppellire la moglie e salutato i figli in una fredda stazione di ferro e cemento prima di vederli partire per sempre verso le fabbriche del nord. Davvero può fermarsi davanti a quelle quattro lastre che conserva in un bustone giallo nel primo tiretto del comò?
No, non può. Allora afferra il suo bastone, lascia la piazza e scompare in una stradina che lo porta dritto nel cuore del borgo. Nello stesso vicolo da dove un tempo partiva chiudendo nella sua grossa mano quella invisibile e bionda del suo ragazzetto adottivo. Per un attimo guarda il mobile di legno scuro che custodisce la sua sentenza senza appello. E quasi lo sfida. Poi cambia stanza e scarpe. Pantaloni e giacca. In dieci minuti, nonostante il passo claudicante, è già per le discese alle porte del paese dove uno che non potrà fare a meno di notarlo lo troverà di sicuro. Occorre giusto un minuto per prendere il suo passaggio. Qualche parola di circostanza. Una bugia sulla sua salute e la richiesta di poter scendere prima del dovuto. Per fare gli ultimi metri a piedi.
A memoria, affondando gli scarponi nella terra umida, scarta alberi e piante, tenendo con una mano il bastone e con l’altra una borsa rotta con un quartino di vino, la pillola del mezzogiorno, il coltello a serramanico e soprattutto il rastrelletto vecchio almeno quanto lui.
Quando finalmente riesce a vedere una tuta blu in braccio ai rami di un ulivo, si ferma un istante, si asciuga la fronte e recupera fiato ed orgoglio:
«Capa tòste – Capa tò! Andò vai sènze de mé!?»* .
In alto, Peppino che si sbriga, sente e non si gira.
Però sorride. E finalmente riesce a cacciare quella benedetta lacrima.
*(Testa dura, testa dura! Dove vai senza di me!?)