Il nostro Super Santos
Mi sembra una vita che sto appeso a questo muro, in questa rete nera a quadri, davanti a questo tabacchino.
Non ne posso più. Non è questo quello che voglio.
E non è per questo che mi hanno fabbricato e gonfiato, credo.
Però faccio la mia figura. Arancione con le strisce nere. Sembro d’epoca. Di sicuro più serio, elegante e pesante di questi quattro Supertele colorati come coriandoli di carnevale indegnamente imprigionati insieme a me.
Roba da bambini, loro.
Io sono un passo avanti.
Dalla mia posizione posso solo guardare quelli che entrano nella porta alla mia destra. Nove volte su dieci è per comprare sigarette. Ma non mancano piccoli clienti per figurine, caramelle sfuse, macchinine.
Sento un discreto movimento nella strada di fronte. Gente a piedi o in macchina che attraversa l’arco, sale, si gira e torna indietro. Gli unici fermi sono i piccioni che hanno conquistato anche il cornicione del vecchio palazzo sull’altro lato della via. Sono allineati come una barriera di calciatori di fronte ad una punizione da fuori area, così mi vien voglia di essere calciato forte per colpirli tutti.
E farli volare via.
Che è uno spreco stare tutto il giorno appollaiato su un balcone, quando hai le ali per volare.
Aspetta! Stanno per entrare due ragazzini. Non sono tipi da sigarette. Potrebbe essere la volta giusta. Eccoli, contano i soldi. Forse ci siamo. Ma come? Non conoscono il prezzo?! Che si chiede un preventivo per comprare un pallone di plastica? Mica li rovino, io …
Pazienza. Magari sono convinti davvero. Avranno bisogno di qualche spicciolo ancora per arrivare a tremila lire. Non mi sembra una missione impossibile. Dai che ce la possono fare!
Fiducia ci vuole.
Fi – du – cia.
Altrimenti si sarebbero accontentati di quelle brutte sottomarche accanto a me così leggere che “vanno a vento”.
No, no. Questi sono bambini in gamba. Vedrai che tornano per me. Uno è già molto alto e rotondetto. Ha le guance paffute. L’altro è piccolino, con lo sguardo vivace. Entrambi portano i capelli neri con una specie di frangetta sulla fronte. Per motivi opposti, sembrano essere tutti e due fuori media. Hanno una maglietta con maniche lunghe a sottilissime strisce nerazzurre. Senza più niente. Né scritte, né simboli, né numeri. Sembra di lana. Avranno un caldo esagerato, ma è chiaro che non ci rinunciano facilmente. Deve essere la loro divisa. Su quattro ginocchia, tre sono sbucciate. Ed anche le scarpette da ginnastica mi sembrano più che altro da combattimento. Di certo, non sono quelle della domenica o quelle che spuntano da sotto la tunica da chierichetto.
Tornano. Hanno trovato un socio. Anche lui piccolo, più nero degli altri. Senza maglia nerazzurra e con un sorriso furbo che si apre su un dente spaccato in diagonale.
Mi prendono.
Neanche il tempo di pagare e sono già fuori con loro tre che prima mi schiacciano ai lati e poi mi fanno palleggiare sbattendomi forte a terra. Per vedere se sono abbastanza gonfio, immagino. Deve essere una specie di test, un collaudo. Altri due o tre tentativi così e, senza considerare nulla di quello che ci circonda, parte un calcione che mi fa fare il primo balzo della mia nuova vita. Sbatto contro una macchina parcheggiata, un muro di intonaco e mattoni e mi avvio veloce per la discesa. Io avanti e loro indietro a rincorrermi. Scarto vasi, sedie di paglia con anziane signore sedute sopra e motorini sui cavalletti. Pochi metri ancora e mi prendono, portandomi via sottobraccio. Per non farmi scappare più. Quasi a voler chiarire le cose tra loro e me.
Si capisce subito che avrò un bel da fare.
Questi tre difficilmente stanno fermi.
Appena qualche minuto e ci ritroviamo in piazza, in mezzo a vecchi che passeggiano e bambini troppo piccoli per noi. È rotonda, rossa, interamente circondata da una strada. Se non fosse per la grossa fontana al centro che elimina il centrocampo sembrerebbe davvero uno stadio olimpico, con la pista di atletica attorno ed i riflettori agli angoli.
Ora, senza troppi riguardi, vengo sbattuto da una parte e l’altra, rimbalzando sulle grate della fontana oppure schiantandomi contro panchine e lampioni. Faccio in tempo anche a finire tra i piedi di qualche omone che mi rispedisce indietro a botta di insulti. Per qualche istante mi blocco persino tra i rami di un albero, per poi scendere a colpi di pietre che tirano giù anche foglie e rametti spezzati.
Ma il peggio deve ancora arrivare.
È quando, forte e veloce, mi fanno passare proprio nello spazio tra una panchina ed un albero, fino a farmi centrare in pieno la portiera di una macchina che passa in quel momento. Con il tizio che scende, si agita ed urla: “ve lo buco!”.
Capito? Come se la colpa fosse mia! Mia, che non faccio altro che prendere calci!
Fortuna che, dopo l’urto con la lamiera della macchina, continuo a rotolare lontano per la strada in discesa senza finire nella traiettoria di altri soggetti simili. Ci metto un po’ per fermarmi, piano piano, sotto la marmitta di una Ritmo.
Nel frattempo sono scappati tutti. Compresi quelli che mi hanno appena comprato. Il vigile finge di prendere nota. Al massimo li farà cazziare dai genitori. Comunque, quando finalmente mi recuperano con una scivolata sotto la macchina parcheggiata, il pericolo sembra essere passato.
Ma bisogna cercarsi un altro posto. Un altro stadio.
Così, nel giro di qualche minuto, ci ritroviamo di fronte ad un cancello di ferro bianco e blu. È ben chiuso, ma i miei padroni non sembrano preoccupati. Uno di loro mi prende con tutte e due le mani protese, si china leggermente in avanti e ritrae la gamba destra come se stesse caricando una fionda. Vorrei chiudere gli occhi, se li avessi.
Poi boom!
Mi becco una stampata che mi fa volare in aria sopra le loro teste. Ora sono più alto del cancello. Ecco, lo supero per poi scendere velocemente verso terra. Rimbalzo una, due, tre volte. Sono dall’altra parte, ormai.
I bambini mi accompagnano. Con una tecnica che sembra collaudata, abbracciano le sbarre del cancello, mettono i piedi esattamente nei pochi ferri orizzontali tra un’asta e l’altra e si alzano su loro stessi. Nel punto più alto, senza tradire la minima paura, fanno passare prima una gamba e poi l’altra. Uno si è addirittura seduto sulla cima più alta del cancello per godersi il panorama per qualche secondo.
Infine, saltano giù. A piedi uniti. Non rimbalzano loro.
Non me ne ero accorto ma qui, dall’altro lato del recinto, i bambini sono molti di più. A decine. Molti indossano maglie a strisce di vari colori, quasi sempre abbinati al nero. Corrono da una parte all’altra come invasati.
Quasi litigano quando il terzo dei miei padroni anticipa tutti e dice: “io faccio Platini”. Con gli altri che a ruota si autoproclamano Rummenigge, Altobelli o Gullit. Ma ho sentito anche gente impuntarsi per Zenga, Tacconi o Baresi. I miei altri due puntano su Berti e Matthaeus.
Mi rendo conto che devo imparare presto a conoscere tutti questi nomi importanti perché sono più presenti di quanto si possa immaginare. Come? No, Maradona non lo fa nessuno. Deve essere troppo anche per i bambini che sognano.
La confusione finisce quando mi bloccano di nuovo per farmi assistere alla loro conta.
“Palla o porta?”, si chiedono i due al centro con tutti gli altri intorno.
“Palla”, dice il primo mentre già mi tiene fermo, schiacciato a terra, sotto la suola della sua scarpetta.
Cominciano. Alcuni dicono di essere la Nazionale della terza elementare. Sono in tanti e tutti interessati a me. Credo di essere il protagonista assoluto di questa cosa che chiamano partita. Non potrei dire con certezza il numero di calci ricevuti, i rimbalzi, i voli, gli urti contro pietre, muri e ringhiere.
Dopo qualche secondo di battaglia ho già perso il conto.
Anche perché vanno avanti per ore. Le scarpe hanno preso lo stesso colore grigiastro delle mattonelle di catrame. Molti hanno graffi alle gambe, mani nere e capelli sudati.
È quasi buio quando qualche mamma del quartiere si affaccia sull’inferriata per chiamare a rapporto uno dei calciatori in campo.
È il segnale per fissare la fine della partita.
“Chi segna vince”, dicono tutti. E ripartono per l’assalto finale ai portieri, che nel frattempo sono diventati volanti.
Nei giorni successivi giocherò molte altre partite. Farò tanti gol. E molte altre volte finirò contro i vetri delle finestre, sotto le macchine parcheggiate o in mezzo ad erbacce e rovi. Ogni minuto per me sarà un pericolo.
Mi basteranno pochi giorni così per capire che non durerò poi molto. Non deve essere un caso se ogni volta prima di iniziare le partite dicono tutti: “chi rompe paga e chi squaccia consegna“.
E’ una vitaccia. In qualsiasi momento potrei finire squarciato contro qualche cosa appuntita, sgonfiato e abbandonato al sole sopra un balcone chiuso, bucato o sequestrato da qualcuno troppo più grande e che forse ha perso la voglia di divertirsi. O la memoria.
Ed anche se dovessi sopravvivere, l’anno che viene finirei certo per essere sostituito da un Tango.
E’ una cosa naturale.
Perciò poco male, non mi offendo io.
Durerò poco, ma la gioia che regalerò ai miei bambini sarà certamente infinita. Ed indimenticabile.
(*dedicato ai miei amici di infanzia)