L’8 gennaio si vota per il rinnovo del Consiglio Provinciale di Foggia. E, se non fosse per il senso delle istituzioni che mi hanno insegnato a suo tempo, per l’idea un pò romantica che ancora conservo della democrazia e per il doveroso rispetto nei confronti di tutti i colleghi amministratori candidati, davvero non me ne potrebbe fregar di meno.
Perché – diciamolo con chiarezza – non sono elezioni serie. I cittadini non votano. I consiglieri comunali e Sindaci, che invece si votano tra loro, non sono tutti uguali. La competizione è pesantemente falsata. Per via del sistema del “voto ponderato”, infatti, c’è chi vale 27 (come me) e chi vale 711 (come i consiglieri della città capoluogo). Niente di più offensivo, discriminante ed anticostituzionale. Ma non è tutto. Non si parla di programmi, non esistono confronti con il territorio o con i pochi elettori rimasti, non ci sono dibattiti sul cosa fare e cosa non fare. Niente di tutto questo. È solo un gioco di posizionamento di politici che devono contarsi e di partiti o liste che devono arrivare prima degli altri. Per fare cosa, nessuno lo sa. Nessuna idea della Capitanata, del suo ruolo, delle sue prospettive. Nessuna rappresentanza territoriale. Elezioni farsa in tutto e per tutto che possono addirittura essere rimandate su richiesta di un segretario di partito con motivazioni a dir poco banali. Roba che neanche al circolo privato sotto casa ti fanno fare.
Nel giro di pochi anni, un ente storico e glorioso come quello provinciale è stato completamente delegittimato e ridotto ad una specie di dopolavoro ad uso e consumo di una ristretta minoranza di politici. A causa del neocentralismo istituzionale tanto in voga negli ultimi tempi (secondo cui tutto quello che è periferico deve essere considerato inutile o dannoso) e della necessità della Casta di dare qualcosa in pasto al popolo dell’antipolitica, le Province sono diventate il simbolo dello sperpero, delle poltrone inutili e dei fannulloni. Ovviamente, ci hanno messo anche del loro e non si può certo dire che hanno brillato. Ma niente di clamorosamente diverso rispetto a quanto accade nei palazzi romani, nelle regioni e nei tantissimi carrozzoni al riparo dalla luce dei riflettori solo perché non soggetti ad elezioni da parte dei cittadini. Con l’aggravante che, un po’ come il Senato di Renzi, anziché essere cancellate tout court, sono rimaste in un limbo indefinito e trasformate in cose strane come le Città Metropolitane o le Aree Vaste. Un film, peraltro, già visto con le tanto vituperate Comunità montane prima smontate a botte di demagogia e poi sostanzialmente sostituite da Unioni di Comuni ancora più farraginose e complicate. A dimostrazione che forse per i Piccoli Comuni di montagna una dimensione sovracomunale era comunque necessaria. Forse bastava migliorarle, correggerne i difetti, eliminarne gli sprechi salvandone la struttura.
Ed allora, anche alla luce del risultato del referendum costituzionale, sarebbe il caso che Stato e Politica tornassero a prendere sul serio le Province trasferendolo loro le risorse necessarie e la dignità istituzionale che adesso manca. Come? Innanzitutto rimettendo al centro di ogni ragionamento i cittadini che devono tornare ad avere servizi (magari anche migliori) e a poter votare. Una classe politica autorevole, anziché accapigliarsi per qualche inutile posticino, dovrebbe pretendere subito elezioni vere per le Province. Dovrebbe cancellare in mezza giornata (come si fa per i salvataggi delle banche…) la sciagurata riforma Delrio che destina Sindaci e Consiglieri comunali a fare il dopolavoro in Provincia e rifiutarsi di prendere ulteriormente parte a queste pratiche del tutto estranee alla gente. Dovrebbe, in buona sostanza, lavorare per riannodare i fili con il territorio e per riattivare il processo democratico che è l’unica vera legittimazione a cui può aspirare un politico. Altro che voto ponderato. Non è un caso se tutta l’articolazione statale (e non solo) è pensata su base provinciale, se ancora oggi quel tipo di dimensione è considerato un ambito territoriale ottimale persino dal Governo uscente che con la Madia voleva riorganizzare i servizi pubblici proprio in contesti territoriali coincidenti con le vecchie province ritenendoli, di fatto, la giusta misura tra i comuni troppo piccoli e le regioni troppo grandi.
Il primo atto del nuovo Consiglio provinciale (si fa per dire), perciò, dovrebbe essere l’approvazione di un ordine del giorno per chiedere a Governo e Parlamento di prendere atto del referendum e di restituire le Province ai cittadini. Per poi pensare ad una riforma vera che riparta dal ruolo fondamentale dei comuni (tutti), dei territori e delle periferie.