Dalla Daniela Eronia che seguo sui social con interesse ed ammirazione mi sarei aspettato sinceramente di più. Il suo intervento su Il Mattino di Foggia (http://www.ilmattinodifoggia.it/blog/daniela-eronia/26817/Il-richiamo-dei-campanili.html) a proposito delle fusioni dei Piccoli Comuni ha il merito di riaccendere i riflettori su una questione che, nonostante la grande attualità, non sempre trova spazio nell’agenda politica e culturale di Capitanata. Nel merito, però, ripropone con una insospettabile superficialità vecchi pregiudizi e luoghi comuni sui nostri paesini che da Sindaco ed abitante dei Monti Dauni mi sento in dovere di controbattere in dieci sintetici punti.
- Non è vero che i circa 8 mila comuni italiani sono troppi. Abbiamo più o meno lo stesso numero di enti locali presente in Spagna. Mentre in Germania e in Francia sono molti di più (12.900 e 36.699); in proporzione agli abitanti, anche nazioni meno popolose come Austria, Danimarca, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno un numero maggiore di Comuni.
- Un Comune non si giudica solo dal numero degli abitanti (peraltro variabile). Come opportunamente riportato da Francesco Chiucchiurlotto sul Quotidiano PA de Il Sole 24 Ore, “i commenti di sufficienza e talvolta di disprezzo che accompagnano i ragionamenti sui Piccoli Comuni sono dovuti non solo all’ignoranza di cosa sia un Comune, come funzioni e operi, ma anche al fatto che non si tiene conto del territorio che esso amministra; spesso di grandissime vastità, montane ad esempio. Infatti i 5.693 Comuni con popolazione fino a 5mila abitanti rappresentano il 70,3% dei Comuni, ma con 10,3 milioni di residenti, cioè soltanto il 17,2% della popolazione italiana. Ma attenzione, governano, cioè manutengono, curano, presidiano ben 164.235 Kmq di territorio italiano, cioè il 54,5% del totale; allora questo dato non è significativo almeno quanto quello della popolazione?”.
- Se la fusione può essere in teoria un’opzione per i Comuni contermini e contigui, la sua efficacia è tutta da dimostrare in aree rurali e soprattutto montane. Cosa c’è di funzionale nel fondere piccoli borghi di montagna posizionati a diversi chilometri di distanza (nei Monti Dauni in media almeno 15 – 20), con strade dissestate, privi di trasporto pubblico, con una copertura internet insufficiente ed altre evidenti barriere materiali ed immateriali? Ridurre in quelle aree i presidi istituzionali non equivale a penalizzare ulteriormente i cittadini che ci abitano? Tutto ciò non rischia di essere un impulso allo spopolamento definitivo? Ne vogliamo e ne possiamo parlare?
- Gli incentivi che dovrebbero spingere gli Amministratori locali ad optare per le fusioni volute a livello centrale, in realtà, non sono altro che un ricatto. Da una parte, infatti, i Piccoli Comuni sono stati oggetto di tagli pesantissimi ed incostituzionali (si veda la spendig review di Monti), dall’altra si propone loro di recuperare parte del maltolto se … scelgono di sparire! Sono stati scientificamente privati di risorse finanziarie e umane per poi essere additati di inefficienza ed inutilità. Insomma, anziché impegnare denaro pubblico per orientare le Comunità locali verso le fusioni sarebbe stato molto più saggio e conveniente sostenere i Municipi italiani senza affamarli per poi promettergli delle briciole in cambio dell’ubbidienza. O è proprio quella che si cerca?
- Il ricorso ad incentivi temporanei a fronte di una scelta definitiva ed irreversibile, inoltre, dovrebbe far riflettere sulla reale convenienza di una fusione. Terminato lo start-up agevolato dallo Stato cosa succede? La somma di due o più presunte debolezze fa automaticamente una presunta forza? Non vi pare singolare, inoltre, che mentre si taglia dappertutto, dalla Sanità in giù, si trovano miracolosamente soldi pubblici per “favorire” le fusioni? Se sono tanto vantaggiose come dicono che bisogno c’è di sostenerle economicamente?
- Grande non equivale sempre ad Efficiente. Anzi. L’esperienza di quei veri e propri mostri giuridici denominati ATO per gestire su larga scala rifiuti, acqua, servizi sociali, ecc… dimostra l’esatto contrario. Più aumentano gli ambiti, più aumentano gli interessi (in genere di grosse società private), più aumentano i costi. E, in maniera inversamente proporzionale, diminuisce la trasparenza delle gestioni e la possibilità dei cittadini (ridotti a semplici utenti) di controllare ed incidere nell’erogazione dei servizi pubblici. Anche nell’esercizio della democrazia e della partecipazione popolare è così. Maggiore è la distanza tra il cittadino ed il governo, minore è la qualità democratica di quella comunità. La vera anticorruzione, a mio parere, consiste nell’aumentare il numero delle persone che si occupano della propria città e del proprio paese, non nel rendere le istituzioni dei fortini sempre più lontani ed inespugnabili.
- La posizione dell’Associazione Nazionale Piccoli Comuni Italiani, che rappresento a livello locale, è chiarissima. L’ANPCI è contraria alle fusioni forzate, obbligatorie ed imposte dall’alto. Nel rispetto dei principi costituzionali sulle autonomie locali, chiede che a pronunciarsi sulle fusioni siano le Comunità locali, democraticamente, in maniera serena, attraverso consultazioni regolari e senza condizionamenti statali o governativi attraverso promesse di incentivi o minacce di tagli.
- Se ha ancora un senso parlare di democrazia e di sovranità popolare non può non tenersi conto dei risultati dei referendum sulle fusioni. Ovunque e con proporzioni considerevoli prevale il NO sostenuto da comitati civici di cittadini spesso in contrasto con gli amministratori locali e gli esponenti di partito.
- Sottovalutare questi aspetti, ridurre il tutto al “campanilismo esasperato” (come se si stesse parlando di un derby di calcio) o, peggio ancora, al desiderio dei Sindaci dei Piccoli Comuni di “non cedere il proprio potere” o di “tutelare gli interessi dei pochi rispetto alla collettività”, come fa Daniela Eronia nel suo pezzo, è sconfortante ed ingeneroso insieme. Sconfortante, perché abbassa di molto il livello del confronto. Ingeneroso, perché non tiene conto della realtà sommersa e diffusa dei tantissimi amministratori locali che svolgono il loro ruolo senza benefici e prebende, come volontari civici, lontani dalle luci della ribalta e fuori dai circuiti politici che contano, con uno spirito che andrebbe recuperato a livelli istituzionali più alti e non estinto per decreto.
- Il dibattito nazionale sui Piccoli Comuni, ai liberi da preconcetti, sta dimostrando invece che i piccoli borghi (l’Italia è il paese dei paesi, per dirla con Rossano Pazzagli), più che un problema, rappresentano una straordinaria opportunità per il Sistema Italia. Nonostante i loro problemi e le loro debolezze (diverse, ma non superiori a quelle delle aree metropolitane), sono postazioni indispensabili per il mantenimento dell’equilibrio ambientale e demografico del Paese; spesso sono straordinari laboratori di buone pratiche, di azioni amministrative virtuose e di partecipazione civica in un momento in cui, quando va bene, tutto sembra ridursi ad un televoto; custodiscono tradizioni, identità, stili, qualità, sapori e valori che, ancora oggi, rappresentano l’ossatura della Nazione, le fondamenta del Made in Italy ed una delle immagini meglio evocative del brand Italia. Per avere conferme autorevoli è sufficiente leggere, tra le altre, la strategia delle Aree Interne del Ministero del Tesoro, il rapporto sui Piccoli Comuni pubblicato da Legambiente, il Manifesto di Borghi Auntentici, i risultati catalogati dall’Associazione dei Comuni Virtuosi.
Per queste ed altre ragioni resto contrario alle fusioni obbligatorie. Non mi piego alle mode del momento e al politicamente corretto. Non credo al mito dei maxi Comuni, delle Città Metropolitane e degli Ambiti Territoriali Ottimali. Non mi fido di chi taglia in periferia e poi spende e spande nei palazzi romani. Non metto in liquidazione il mio paese per qualche incentivo statale. Su tutto il resto… ne possiamo parlare.