Ora, io lo so che a vedere certi parlamentari vien voglia di dimezzarli tutti (nel numero). Il caso dei furbetti del bonus è solo l’ultimo colpo inferto alla credibilità (ormai scarsa) di una classe dirigente caratterizzata, per dirla con Alessandro Giglioli de L’Espresso, da una “spaventosa pochezza culturale, etica e soprattutto umana”.
Ma il punto non è questo. Anzi, dimezzare il numero degli onorevoli potrebbe addirittura peggiorare la situazione generale.
Per almeno 5 motivi:
- Meno parlamentari significa meno territori rappresentati. Peggio per noi. Molto peggio per noi cittadini dell’Italia “minore”, delle Aree Interne, dei territori rurali. Del resto, la matematica non tradisce. Senza adeguate compensazioni nella definizione dei collegi, infatti, le aree marginali del Paese saranno tagliate fuori a beneficio delle zone urbane e metropolitane dove sono concentrati più elettori. In un colpo solo ci potrebbe essere un Parlamento in cui vengono rappresentate solo le città con inevitabili conseguenze sulle leggi, sui temi affrontati, sui fondi assegnati, ecc… Insomma, è altissimo il rischio di nuove sperequazioni territoriali a causa della concentrazione del potere elettorale nelle zone più densamente abitate. È il caso di ribadirlo fino alla noia: in un’Italia sempre più diseguale, divisa e frammentata c’è bisogno di avvicinare i cittadini (e ancor di più i giovani) e di ridare dignità ai territori marginali. Di portare al centro il punto di vista delle periferie. Di accorciare le distanze, non di aumentarle. La riduzione tout court dei parlamentari ed il probabile allargamento a dismisura dei collegi elettorali rappresenta un gravissimo rischio per i borghi delle aree interne, le zone rurali e montane che potrebbero uscire definitivamente dai radar dei partiti e dall’agenda politica.
- Meno parlamentari, più Casta. Tagliando il numero degli eletti si riduce la dimensione della Casta ma, paradossalmente, la si rafforza. Diminuisce il numero degli onorevoli, ma aumenta il potere dei pochi leader di partito che, con modalità diverse, decidono candidati ed eletti. Cosa che, come insegna la storia recente del parlamento dei “nominati”, non va certo a beneficio della qualità dei nostri rappresentanti e, più in generale, della nostra democrazia. Insomma, visti i precedenti ed i criteri di selezione del personale politico da parte di quel che resta dei partiti (la cui democrazia interna è per molti un tema ancora aperto), la regola del “pochi ma buoni” è tutta da dimostrare.
- Risparmio irrisorio. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici, 57 milioni di euro all’anno, pari allo 0,007 % della spesa pubblica. Una goccia nel mare dei conti dello Stato. Un risultato tutt’altro che clamoroso che poteva essere raggiunto semplicemente tagliando sprechi, stipendi, pensioni d’oro, indennità ed altri privilegi che nel frattempo i politici nazionali hanno accumulato. E che non tiene conto dei maggiori costi che, prima o poi si ripresenteranno sotto altra forma a causa degli squilibri territoriali incoraggiati da questa riforma.
- No ad un referendum senza partecipazione. Un taglio di questo tipo serve solo a saziare gli appetiti sempre crescenti di una certa antipolitica di comodo. Le riforme epocali non si fanno così, con un referendum di cui pochi parlano, nascosto tra le schede settembrine delle elezioni regionali ed amministrative più strane della storia a metà tra pandemia e ferie d’agosto. Un passaggio così importante richiederebbe dibattiti ampi, mobilitazioni democratiche, comitati territoriali capaci di intercettare sensibilità diverse e diffuse con un’agibilità politica forte e riconosciuta.
- Meglio fare riforme organiche. Non si può pensare di toccare il Parlamento senza mettere mani su altre questioni ordinamentali collegate: la definizione dei collegi e della legge elettorale, l’introduzione di pesi e contrappesi per assicurare adeguata rappresentanza politica alle minoranze linguistiche o agli italiani all’estero oppure per bilanciare, ad esempio, il peso dei rappresentati regionali nelle elezioni del Presidente della Repubblica o dei senatori a vita nella fiducia ai governi. La riduzione del numero dei parlamentari, in definitiva, può essere un punto di arrivo di un percorso più ampio di revisione della Costituzione, non una bandierina ideologica da sventolare su un balcone come ai tempi dell’abolizione della povertà. Peraltro, sui territori abbiamo già visto cosa significa, ad esempio, abrogare le Comunità Montane o distruggere le Province senza avere un piano più organico di ridefinizione di competenze e funzioni.
Perciò il mio è un voto per il NO.
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