Racconto breve dedicato a chi ancora va in piazza per incontrare qualcuno. Magari chi capita.
Poche ore di riposo e già inizia un’altra giornata. Manco un po’ di tregua. Lo dovevo sapere, lo dovevo. E poi dicono che non faccio mai niente… E che sto tutto il giorno “seduta”.
Ecco, adesso arriva zio Pietro. Prima ancora che esce il sole, lui già sta qua. Non fa neanche aprire il bar. E che la terra se ne scappa?!, dico io … E poi mi si siede in testa con quelle sue chiappacce ad aspettare e a maledire il tiratardi. Mi butta il suo grosso bastone addosso e accende il primo mozzicone della mattinata, se così si può chiamare, visto che è ancora buio pesto. Gli scarponi col ferro dentro si portano ancora dietro la terra del giorno prima e mi inzozzano tutto il giardino. La barba, in compenso, è dell’altro ieri. Al quarto-quinto sproposito è come se Michelino del bar sentisse tutto da sotto le sue coperte calde. Al sesto-settimo è già chino sulla serranda, sotto lo sguardo corrucciato del vecchio che aspetta. La scena, vista da qua, è tutt’altro che una novità: lui, fingendo indifferenza, dice “Buongiorno”, l’altro borbotta qualcosa contro i giovani d’oggi (per lui sono tutti giovani) e si affaccia al bancone ancora immacolato per reclamare il bicchierino numero uno.
Da questo momento in poi arriva la prima ondata. Vabbè, ondata, per modo di dire. Saranno quattro o cinque in tuta blu. Dice che vanno in città. Tutti i santi giorni, poverini. Alla fabbrica, vanno. Parcheggiano sempre accanto a me. Certe volte senza nemmeno spegnerlo, quel coccio di macchina che tengono. Loro a prendere il caffè ed io a respirare il fumo nero della loro utilitaria. Vi sembra normale?
Sempre meglio, comunque, di quei bambocci che arrivano poco dopo. Il casino che fanno di prima mattina è qualcosa di unico ed insopportabile. Da spaccare le pietre. Tanto hanno le cuffiette nelle orecchie, loro. Aspettano la corriera e, intanto, mi saltano addosso con quegli zaini gonfi e pesanti. Maschi e femmine insieme che non c’è più religione, come dice zio Pietro, che intanto avrà già raggiunto la sua campagna per passare la giornata con i suoi cani. Il fessacchiotto di turno, che non manca mai, mi scarabocchia con scritte oscene e straniere o mi appiccica una cicca sopra, che la sua fortuna è che non ho le mani da mettergli addosso. Meno male che dura poco e che ben presto spariscono tutti dietro le portiere sgangherate della postale.
Ed oggi è pure giorno di mercato. Ho già visto passare camion di ogni tipo, negozi quadrati su ruota e furgoni sgangherati con appeso di tutto. Il pannacciaro, appena finisce di sistemare le cose sue, mi viene sempre a trovare. Se lo viene a mangiare da me il suo bel panino imbottito. Tra le mie gambe posiziona con cura la sua birra fredda e poi parte. Tre bocconi in tutto. Anche oggi si dimentica di pulire, lasciandomi apparecchiata di briciole di ogni tipo. Che tanto ci penserà il vento o qualche piccione.
Sapete? Lo ricordo come se fosse ieri quando mi hanno presa. Quello che parlava sempre – che era un consigliere o un assessore? che non ho mai capito la differenza… – e l’altro, più studiato, che invece ha deciso: “prendiamo questa che è a norma”.
A norma? Ma che razza di complimento è?
All’inizio è stato sorprendente, non lo nego. Sono arrivata che c’era gente in giro a tutte le ore. Tutti a guardarmi e a provarmi. Ok, c’erano anche i soliti professori a dire peste e corna, ma quelli si sono stancati subito. Dice che ero troppo bassa, troppo alta, troppo scomoda, troppo bianca, troppo fredda. Oppure, non abbastanza bassa, non abbastanza alta, non abbastanza comoda, non abbastanza bianca, non abbastanza calda. Non abbastanza. Mi sa che da queste parti non è mai abbastanza. Insomma, ci siamo capiti.
Le prime sere poi, mi sono sentita concerti, feste, fuochi d’artificio. Da non credere! Manco fossi capitata in città come una mia amica d’infanzia … Sai l’invidia per quelle rimaste in magazzino! Restavo in piedi – beh se così si può dire – fino a notte inoltrata. Ed ogni sera con amici diversi. Gente che non si incontrava da mesi, si è riabbracciata proprio qua, da me. Grazie a me. Ad un certo punto diventavo persino troppo piccola per tutta la comitiva che mi si formava intorno. Se non ricordo male, è proprio da me che Luca e Sara hanno iniziato a scherzare. Una volta con la scusa del gelato, l’altra con quella della sigaretta e poi finalmente quel bacio alle tre di notte, col lampione accanto, amico mio, che sembrava essersi fulminato apposta. Ci ha messo un’eternità quel benedetto ragazzo! Eh, ma io lo dissi subito – lo dissi – che quei due non la raccontavano giusta…
Però è finito subito. No, non tra Luca e Sara che ogni tanto vengono pure a trovarmi. Al loro posto, dicono. L’ammuina, intendevo dire. È durata due, tre settimane al massimo. Ora, è sempre la stessa storia: zio Pietro, Michelino del bar, gli operai, gli studenti e – quando va bene – i bancarellari del mercato. Poi, la tregua. Per un paio di ore resto davvero sola. Soltanto qualche macchina che gira intorno e qualche foglia dell’albero vicino che cadendo mi accarezza dolcemente.
Verso quest’ora, quando davvero non c’è anima viva, mi raggiunge Pongo. È un randagio. Da lontano sembra un cane di lusso. Ma, da vicino, si vede che non sta messo benissimo. Chissà quante ne ha passate! In ogni caso è l’idolo di tutti i ragazzini del paese. Sotto di me trova il fresco, se c’è il sole, ed un riparo sicuro, se piove. E dorme che è una bellezza.
Lo svegliano verso metà pomeriggio, quando i soliti imbecilli mi scambiano per una porta di calcio. Ma – dico io – non ce l’hanno un campo sportivo a sto’ paese??? Il fatto è che vanno avanti, indisturbati, per ore. Sono partite che non finiscono mai. O, almeno, fino a quando non arrivano zio Tonino e zio Carmine. Con i giocatori di pallone, subito muti a cambiare stadio. Ed io che, senza saperlo, mi trasformo da porta di calcio ad avamposto di vedetta. I vecchi seduti da me sono capaci di stare in silenzio per ore guardando la piazza che – poco a poco – si riempie di gente che inizia il sopra e sotto.
Dev’essere un’usanza del posto perché lo fanno proprio tutti, questo sopra e sotto. Gli unici esentati sono i bambini muniti di triciclo e biciclette a rotelle. Loro, anziché fare avanti ed indietro come carcerati nell’ora d’aria, vanno dove vogliono disegnando traiettorie impossibili tra vecchi, mamme e giovani. Qualche professore dice addirittura che la piazza è un posto pericoloso, ma pensa te! Poi sono i primi a parcheggiarci quasi su con i loro fuoristrada esagerati e a scaricarci figli, nipoti, cicli, bicicli e tricicli.
Bocca mia, taci.
Tornando alle cose serie, ti accorgi subito se il sopra e sotto è di quelli importanti perché chi tiene la discussione – di tanto in tanto e comunque sempre a sorpresa – si blocca all’improvviso per staccarsi dalla schiera che lo accompagna ai lati e costringere tutti, qualche passo dopo, a fermarsi e girarsi indietro, verso di lui. Se invece non è di quelli importanti, il passo è sempre lo stesso, noioso e regolare; lo schieramento a tre o quattro (ma ne ho visti anche di più grandi) è lineare, rigido, quasi militare. Fuori concorso, ci sono quelli solitari. Mani dietro le spalle, capo leggermente proteso in avanti, sguardo concentrato. Oppure, testa alta, piglio fiero e fischio prolungato. Beati loro.
Mi sa che cenano tutti alla stessa ora nel Borgo. Perché d’improvviso, dopo il passaggio dell’ultima corriera con le immancabili strombazzate di clacson, la piazza si svuota immediatamente. Giusto il tempo di un saluto e gli schieramenti si sciolgono. Finiscono le partite, le corse ed i ragionamenti. È un rompete le righe in piena regola.
Così resto di nuovo sola. E questa volta, senza neanche Pongo a farmi compagnia.
Pazienza. Sempre meglio di nascere cestino.