Ieri sera ho partecipato alla presentazione del libro fotografico di Alessandro Tricarico, uno degli artisti e dei talenti più luminosi della nostra Capitanata. Le sue opere rendono onore alla nostra Terra ovunque. Il libro può essere acquistato sul sito di Alessandro al seguente indirizzo: https://www.alessandrotricarico.com/shop/ . Di seguito pubblico la prefazione che ho avuto l’onore di scrivere per una breve introduzione ad un’opera che non può mancare nella biblioteca di tutti gli amanti dei Monti Dauni e dei paesi.
C’è qualcosa di straordinariamente provvidenziale nel nuovo, bellissimo, lavoro di Alessandro Tricarico. La sua Mediofondo di Primavera arriva al momento giusto per rimettere in equilibrio le cose, per allargare taluni orizzonti, per completare e correggere una certa narrazione, oggi dominante, su borghi, aree interne e piccoli comuni.
Illusi dai milioni europei, distratti dai bandi ministeriali su borghi-cartolina finti e artificiali, ubriacati da un’attenzione improvvisa ed effimera, affascinati dalla retorica di improbabili ritorni alla vita bucolica, sono in tanti a parlare dei nostri paesi senza neanche conoscerli, attraverso letture superficiali e racconti patinati.
Troppo spesso ne viene fuori un quadro idealizzato e falsato, una rappresentazione buona per influencer e archistar, una distorsione della realtà che esalta un Piccolo Mondo Antico che, lo sappiamo bene, sopravvive solo in talune pubblicità abitate da famiglie modello in mulini immacolati incastonati in paesaggi incontaminati.
Alessandro no. Il suo, come sempre, è un lavoro di verità e di confine che sfugge a questa sorta di colonizzazione culturale. In maniera discreta e solitaria, come uno dei suoi anziani ritratti dietro la vetrina di casa, osserva l’Italia del margine per quella che è, per come appare un attimo prima della bella stagione che tutto colora e tutto riempie.
Nessun effetto speciale. Nessun prodotto da vendere. Nessun aspirante visitatore da incantare. Il suo è un viaggio a piedi in quella che Sandro Polci ha chiamato “l’Italia rugosa”, quella del declino e dell’abbandono. Le sue immagini attraversano luoghi che chiaramente non ce la fanno, paesi inattuali, posti di fatica e di disagio. Sono una specie di censimento di chi è rimasto, un omaggio alla restanza di chi tiene in piedi una casa, presidia un vicolo, custodisce un fuoco, rinnova un rito o alimenta un rituale. Ma siete fuori strada se pensate di trovare qui una carrellata di perdenti o un campionario di esclusi da spiare da lontano. Il talento e l’intento dell’Autore ci restituiscono, al contrario, un profondo senso di dignità, di fierezza, di forza. È in altri luoghi che si devono cercare sconfitta, rabbia, lamento e rancore, non qui. Non siamo in un suburbio metropolitano.
Per questo, gli scatti di Tricarico, pur mettendoli a fuoco, non parlano di arretratezza, passato e ritardi. Funzionano diversamente: non sono cronaca e neanche folklore. Prelevano scampoli di realtà per offrire agli osservatori attenti suggestioni e sentimenti. Ritagliano un pezzo di mondo per invitarci a vedere soprattutto quello che non c’è, a scoprire lo spazio sconosciuto che va oltre il bordo della figura. Non a caso i suoi protagonisti non ci guardano mai e si muovono sempre verso altre direzioni. Hanno tutti un dopo ed un altrove. Non sono mica figuranti di un presepe contadino.
Niente di tutto questo. Per chi ha il cuore di entrarci dentro, le foto che seguono sono piuttosto come una poesia di Franco Arminio: utilizzano la materia, ma descrivono il sacro e l’arcaico, mostrano miracoli piccoli, lasciano intuire attimi di provvisoria beatitudine.
Se è vero, come profeticamente diceva un secolo fa il poeta Paul Valery, che “in futuro le immagini ci arriveranno a casa come l’acqua corrente dai rubinetti”, allora Alessandro Tricarico, fedele a sé stesso, ci porta, senza filtri, direttamente alla fonte, alla sorgente, all’inizio di tutto.
E ci fa un regalo fragile e prezioso. Perché nei mobili vecchi che non si buttano, nelle giornate lunghe in compagnia del camino e del cane, nei passi pesanti di una processione fuori tempo, in certi rituali quotidiani, l’autore ci lascia intravvedere stanchezza e solitudine, ma solo per ammonirci a cercare qualcosa di più importante che ancora resiste.
A quarantasei chilometri di distanza dalla città – ci ricorda a modo suo – c’è gente che tiene accesa la luce durante l’inverno, ci sono sprazzi di sorrisi e di comunità, ci sono bambini che ridono giocando nella neve.
Si chiama vita.