Perché la partita contro il Coronavirus si vince contrattaccando
Premessa 1: non ho competenze scientifiche, non sono un esperto virologo, ho paura degli aghi e delle punture e sono pure ipocondriaco.
Premessa 2: sono solo un Sindaco di paese, non ho soluzioni, sono preoccupato per la mia gente e per la mia Nazione, ma anche curioso ed abituato a manifestare il mio pensiero senza problemi.
Premessa 3: sono ormai convinto che no, non andrà tutto bene. Anzi, sta già andando male. Speriamo non tutto.
Non passa giorno, ma potrei dire ora, senza che un nostro politico nazionale o regionale assicuri la pronta apertura di un nuovo ospedale COVID, la riconversione di vecchio plesso e l’aumento dei posti letto di terapia intensiva. Ovviamente a suon di milioni. La strategia mi sembra chiara: mentre l’Italia è (sostanzialmente) chiusa, si cerca di recuperare tutto il tempo perso per prepararsi a quello che si dice potrebbe essere il picco dei contagi. Come? Rafforzando il nostro sistema difensivo per curare di più e meglio i contagiati prossimi futuri, arruolando nuove truppe, portando nuovi rifornimenti al fronte. Schierando, insomma, il nostro esercito in trincea, aspettando il nemico al varco, cercando di essere pronti a ribattere colpo su colpo ad ogni suo attacco.
È, tuttavia, uno scenario che non mi rasserena affatto. L’idea che la guerra contro il Coronavirus si possa vincere negli ospedali non mi tranquillizza per niente.
Poi mi capita di leggere un interessante articolo in lingua inglese (perdonerete la traduzione casereccia di alcuni stralci) pubblicato dal The new England Journal of Medicine da un’equipe di medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e mi diventa tutto più chiaro (Mirco et al., 2020).
Il contributo autorevole, che ci arriva dal fronte più avanzato di questa guerra contro il nemico invisibile del nostro tempo, è illuminante e parte dal radicale capovolgimento dell’approccio tradizionale dell’assistenza sanitaria che fin qui ci è stato proposto:
“In una pandemia, l’assistenza centrata sul paziente è inadeguata e deve essere sostituita da un’assistenza centrata sulla comunità. Sono necessarie soluzioni per Covid-19 per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali”.
Ecco il punto. Bisogna ribaltare tutto. Non concentrarsi solo sulle zone rosse, quelle infette, dove la battaglia infuria, ma spostare il raggio d’azione anche sulle zone bianche, dove la gente è relativamente tranquilla in quarantena, cercando di mantenerle pulite e di allagarle progressivamente.
Anche perché gli ospedali sono altamente contaminati e al personale si chiede di lavorare sotto uno stress altissimo dovuto a ritmi, condizioni e rischi inaccettabili:
“Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo ben oltre il punto di non ritorno: 300 letti su 900 sono occupati da pazienti Covid-19. Il 70% dei posti letto in terapia intensiva nel nostro ospedale è riservato a pazienti Covid-19 in condizioni critiche. La situazione qui è triste operiamo ben al di sotto del nostro normale standard di assistenza. I tempi di attesa per un letto di terapia intensiva sono lunghi. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono da soli senza adeguate cure palliative, mentre la famiglia viene avvisata telefonicamente, spesso da un medico sfinito ed emotivamente provato che non hanno mai conosciuto prima”.
“Ma la situazione nell’area circostante è ancora peggiore. La maggior parte degli ospedali è sovraffollata e si avvicina al collasso mentre non sono disponibili i farmaci, i ventilatori meccanici, l’ossigeno e i dispositivi di protezione individuale. I pazienti giacciono su materassi a terra. Il sistema sanitario fa fatica a fornire regolarmente tutti gli altri servizi (si pensi alle gravidanze ed ai parti), mentre i cimiteri sono sopraffatti”.
Nelle retrovie non va certo meglio. Le Comunità vengono trascurate e messe in quarantena sine die, sono ferme cose importanti come le vaccinazioni ai bambini o l’assistenza ai disabili, i danni economici iniziano ad essere tangibili per larghe fasce di popolazione, l’informazione è lacunosa e contraddittoria, le disposizioni emergenziali del Governo sono frenetiche, di non sempre facile comprensione e rasentano il ridicolo a proposito dei modelli di autodichiarazione sfornati a velocità supersonica. Come se l’Ufficio Complicazione Affari Semplici fosse l’unico ancora aperto e a pieno regime.
Soprattutto, il mondo esterno sembra inconsapevole:
“I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un l’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla Comunità”.
I medici di Bergamo lo dicono chiaramente. Non bisogna “portare” il virus negli ospedali (che poi diventano i principali vettori del contagio), ma andare a prenderlo tra la Comunità, a stanarlo tra la popolazione. L’ospedalizzazione non è la soluzione del problema:
“Sono necessarie soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali. Assistenza domiciliare e cliniche mobili, evitare movimenti inutili e scaricare la pressione dagli ospedali. L’ossigenoterapia precoce, pulsossimetri e la nutrizione può essere consegnata a domicilio per persone lievemente ammalate e convalescenti, istituendo un ampio sistema di sorveglianza con adeguato isolamento e sfruttamento di strumenti innovativi di telemedicina”.
“Questo approccio limiterebbe il ricovero in ospedale ai casi gravi, riducendo così il contagio, proteggendo i pazienti e gli operatori sanitari, e minimizzando il consumo di dispositivi di protezione”.
Il terreno decisivo dello scontro, dunque, non è il reparto di terapia intensiva, dove pure sembrano concentrarsi gli sforzi maggiori di governatori e commissari. Abbiamo bisogno, invece, di misure audaci per evitare l’unico picco possibile, quello che avremo quando le misure restrittive saranno inevitabilmente allentate, dopo mesi di lockdown.
Secondo quanto proposto dai medici di Bergamo e da altri autorevoli studiosi non servono medici ed infermieri (che entrano in campo quando già c’è il paziente), ma biologi e tecnici di laboratorio. Come denunciano da Bergamo, serve il potenziamento delle strutture di analisi per cercare di isolare i positivi prima che sia necessario ospedalizzarli, per scovare gli asintomatici e adottare quarantene mirate al posto di quella sostanzialmente in atto, generalizzata e presumibilmente finalizzata soltanto a guadagnare tempo.
Partendo, ad esempio, dai piccoli centri si potrebbe procedere all’esecuzione del tampone a tutti i residenti e in un giorno solo restituire alla normalità l’intera Comunità o gran parte di essa. Far guadagnare gradualmente alla Nazione un piccolo pezzo di popolo e di territorio. Se la capacità diagnostica aumentasse, in pochi giorni le zone bianche potrebbero allargarsi per cerchi concentrici, restituire la propria vita ad un numero crescente di persone e rimettere in moto pezzi importanti dell’economia nazionale.
Per vincere la partita, insomma, non possiamo mettere tutti i giocatori in panchina e lasciare solo a medici ed infermieri il compito immane di resistere agli attacchi del virus.
Se non si ribalta il campo, e se non sbucano da un giorno all’altro farmaci miracolosi, l’alternativa più probabile è il contagio lento ma graduale. Non è un caso che da giorni ci si aspetta un picco che probabilmente non arriverà mai. Senza cambiare schema, la prospettiva più concreta è quella di un contagio sfumato, forse meno impattante sul sistema ospedaliero nel frattempo rafforzato, ma ugualmente letale, soprattutto per la popolazione più anziana. Lo stesso rischieremo di perdere i nostri cari, i nostri nonni e la parte più fragile delle nostre Comunità nel modo peggiore, senza cure adeguate e neanche il conforto di un funerale ed una degna sepoltura. Magari quando i numeri complessivi scenderanno, quando calerà il sipario sul pietoso spettacolo della quotidiana conferenza stampa di Borrelli, quando il virus continuerà ad uccidere. Magari solo un po’ più in silenzio.
Per le fonti:
https://catalyst.nejm.org/doi/full/10.1056/CAT.20.0080
https://jamanetwork.com/journals/jamacardiology/fullarticle/2763524