Non so se Sergio Pirozzi, Sindaco di Amatrice, e Franco Arminio, paesologo autore del pezzo dello scorso 11 settembre su L’Espresso, si siano mai parlati. So che in modi diversi, e quasi in contemporanea, (mi) hanno detto le stesse bellissime cose.
Così come è possibile recuperare tracce di questi pensieri nel Manifesto dei Borghi Autentici di Ivan Stomeo (candidato alla presidenza dell’ANCI), oppure nei documenti programmatici dell’ANPCI di Franca Biglio, piuttosto che nelle rivendicazioni dei Comuni Dimenticati, dei comitati per la sanità locale ispirati dal Crest oppure nelle buone pratiche raccolte e diffuse dai Comuni Virtuosi. O più semplicemente nei discorsi e nelle battaglie quotidiane dei tanti Sindaci che ho conosciuto (o che ancora non conosco) in questi mesi a Roma, sotto Montecitorio, a Volterra ed in tutti gli altri fronti aperti contro quella politica dal fiato corto (come è stata chiamata da Arminio) che vuole cancellare i paesi o farci credere che sia inesorabile il loro spopolamento.
Segno che ormai c’è un filo robusto seppur invisibile a legare tante sensibilità locali; che c’è un sentimento, uno stato d’animo, un clima (quello che gli inglesi chiamano mood) che va oltre le eventuali appartenenze politiche, le specificità regionali e le condizioni locali.
“Io sono Appennino“, scrive Paolo Castelnovi, per indicare la fierezza degli abitanti che vogliono continuare ad abitare. Per descrivere “il senso primario di civiltà e di comunità” che ha visto brillare tra i cumuli delle macerie e che può essere “l’unico vero strumento di salvezza dalla palude socioculturale in cui ci siamo cacciati“. E che, c’è da starne certi, si sarebbe materializzato in qualsiasi altro piccolo paese italiano.
È una straordinaria e forse inconsapevole ricchezza culturale e politica, un incredibile patrimonio identitario, un esercito di donne e uomini, colpevolmente ignorato dalla politica e della istituzioni (se non dopo le tragedie), che è a servizio della propria Terra. Il più delle volte, cominciando dalla cosa più semplice e difficile insieme: vivendoci.
Ha incarnato tutto questo, Sergio. Quando ci ha ricevuti nel suo paese ferito, tra macerie, esercito, tende ed un surreale silenzio, non ha speso neanche un minuto a lamentarsi. E’ incredibile, citando ancora Castelnovi, “il modo retto” di comportarsi davanti alla morte della Comunità di Amatrice.
Il saluto, l’abbraccio, l’invito a non piangere di fronte ai nostri occhi lucidi con Flavio che gli dice: “ma te tutto questo coraggio dove lo prendi?”. E Pirozzi che fuma e va avanti, con l’esortazione a non fermarsi: quello che è successo qui dimostra che abbiamo ragione. Se può scegliere, la nostra gente vuole vivere nei suoi paesi. Abbiamo bisogno dei servizi essenziali, di presidi di pronto soccorso e di emergenza – urgenza, di scuole di montagna, di evitare l’urbanizzazione esasperata, di presidiare i territori. È doveroso da parte di tutti continuare la lotta per le aree interne anche per chi, come Amatrice, ha pagato un prezzo altissimo. Il tema dei Piccoli Comuni deve continuare ad essere centrale anche quando le telecamere si spegneranno. C’è un modello alternativo a quello delle metropoli e dell’urbanizzazione selvaggia. C’è un diritto indisponibile della gente a vivere nei borghi, nelle contrade e nelle montagne dei Padri. Noi staremo qui esattamente come voi volete stare nei vostri paesi.
Proprio così, Sergio.
Schiena dritta. A lavoro. Non si molla di un centimetro.