Ritratti a Matita
Se vivi qua ed hai più di cinquant’anni, allora hai conosciuto Mammauenza.
Non uno qualsiasi. Uno che è a pieno titolo nella storia del Borgo. Uno che appartiene alla memoria collettiva del popolo. Uno, per intenderci, a cui sono state dedicate mostre fotografiche, poesie ed incontri serali tra il goliardico ed il culturale. Uno tanto leggero da lasciare una traccia profonda, profondissima, nella metà vecchia di questo posto.
Un tipo minuto, piccolo, fisicamente provato se non proprio malmesso. Dalla faccia buona ed ingenua. Se in borghese, vestito poco peggio di tutti gli altri del suo tempo. Da passare inosservato, se non fosse per quella che un tempo si chiamava pazzia, ma che in fondo, altro non era che arte.
L’arte di rubare la scena alla povera quotidianità per colorarla di tonalità divertenti e grottesche, fino a diventare protagonista di una commedia infinita e personalissima nella quale era regista, sceneggiatore ed interprete.
Una messinscena credibile ed assurda. A cominciare dal palcoscenico. La modesta abitazione trasformata in un sacrario disordinato e zeppo di paramenti, altarini, madonne e crocifissi, santi e gesùbambini, ornamenti religiosi di seconda mano e candele smozzicate rubate alla Chiesa Madre. Impreziosita, infine, da un pianoforte vero. Non di lusso, ma vero. Quasi a voler far capire a tutti, come ci fosse davvero poco da scherzare.
E poi le decine e decine di giovani dell’epoca che, puntuali ogni sera, facevano visita al “religioso” per chiedere ed ottenere una messa.
Per sentirlo sfinestrare predicando.
O predicare sfinestrando.
In ogni caso, per ridere. Senza mai essere crudeli.
Un poco di latino personalizzato ed un poco di italiano dialettizzato. Il rimprovero, ora paterno ora austero, a qualche discepolo indisciplinato o al chierichetto distratto. Qualche canto improbabile arrangiato per l’occasione e poi, finalmente, la parabola del giorno. Ascoltata dai presenti e poi tra-smessa, di bocca in bocca, al resto del paese. Fino a farla diventare leggenda popolare.
Come quella del miracolo del pane e dei pesci che nella sua capovolta versione prevedeva che Gesù con tremila pani e cinquemila pesci avesse dato da mangiare a tre sole persone che, non sentendosi male nonostante l’abbuffata, diedero vita, per l’appunto, al miracolo.
Che genio!
Ora, se non vivi qua o non ci hai vissuto abbastanza e vuoi davvero capire, ti basta fare una passeggiata nel centro storico. Tra serpentine di discese e salite, scalinate e vicoli ciechi, curve a gomito che finiscono giusto nell’uscio di una casa, vecchiette dietro le vetrine e seggiole davanti le vetrine, troverai una porta (né vecchia né nuova) con una lapida con su scritto:
“Ad Antonio Stampone detto Mammuenza
Giulivo nella sofferenza i suoi amici posero”.
Se ti fermi un attimo e lasci stare le tue cose puoi ancora sentire un piccolo rumore lontano.
Di dialetto e sorrisi.
***
Se vivi qua ed invece ne hai almeno quaranta di anni, allora hai conosciuto certamente Zio Peppino.
Carnagione nero-scura, corporatura media, capelli bianco avorio, occhiali da sole da rock star, sigaretta sempre appesa alla bocca o stretta tra le dita posizionate quasi a voler fare il numero tre.
Nei giorni migliori, in grado di essere non elegante, di più, elegantissimo. In tutti gli altri, volutamente trascurato ed arruffato. Da sembrare uno scaricatore di porto.
In ogni caso, mai capace di passare inosservato.
Stazionando tra il bar di famiglia e la piazza centrale, poteva starsene tranquillamente sdraiato a pancia in giù su una delle cento panchine di marmo a prendere il sole, salvo poi alzarsi di scatto per mandare qualche giovane a comprare le sigarette.
Nei giorni di barba lunga, i più piccini hanno avuto modo di paragonarlo al Capitano marinaio dei bastoncini Findus, salvo impaurirsi se, improvvisamente e fuori copione, incominciava a borbottare da solo in mezzo alle pirolette impazzite del suo vecchio cane pastore, come lui rimasto orfano del gregge.
Il pezzo forte della casa, comunque, sono state sempre le canzoni. Interpretate con voce inconfondibilmente rauca e roca. Testo e musica di zio Peppino. Offerte, come ogni personalità che si rispetti, soltanto in certe occasioni e ad un certo pubblico.
Non sempre e non a tutti.
Fornito di un repertorio vastissimo, zio Peppino – soltanto se e quando ne aveva voglia –intonava il pezzo del momento, salvo poi tornare, a semplice richiesta, sui suoi ca-valli di battaglia.
Giusto per capirci, c’è ancora gente in giro capace di mandare a memoria strofe storiche come “Sto dormendo”, “Topolino – topolino”, e via discorrendo.
All’apice del successo (e del divertimento di certe comitive), zio Peppino fu persino convinto a registrare uno speciale dedicato alle sue canzoni più famose. Così, dopo non si sa quanto lavorio ai fianchi dell’artista e chissà quali promesse di bevute e sigarette, il giorno di chiusura del bar, davanti alla serranda calata, si presentò zio Peppino con l’abito buono. Si dice che fosse quello che teneva da parte per il morto-rio (ma è un dettaglio che io non potrei confermare). Ad attenderlo tutto il necessario per un vero show. Cineoperatore, regista e presentatore improvvisati pronti ad immortalare per sempre la magia di zio Peppino e a rimandarla in onda, nel videoregistratore del locale, man mano che la voce si fosse sparsa in paese.
La cosa è andata avanti per molto.
Almeno fino alla trovata successiva.
Almeno fino a quando non arrivarono le elezioni e al bar non ebbero bisogno di raccontare altro. Fu così che tra aspiranti consiglieri nervosi, sostenitori agguerritissimi e personaggi in cerca di voti, iniziarono a comparire manifesti e volantini di una lista del tutto inaspettata. Quella del “Zurro Volante”, organizzata – manco a dirlo – da quelli del locale e capeggiata dal nostro zio Peppino. Che, se non altro, vinse le elezioni del divertimento.
***
Ora, se hai meno di vent’anni è probabile che tu non conosca queste storie. O, al massimo, le avrai sentite di sfuggita, come un’eco lontana.Tuttavia, se ti capita di entrare nel bar del Borgo, prova a tirare dritto verso la seconda stanza attraversando caramelle, gelati e patatine fino alla fine del bancone.
Saluta Banino come si conviene all’artista che è.
Prova a guardare l’angolo opposto a quello del caffè. Lascia perdere i volantini sparpagliati sulla mensola.
Soffermati, invece, su due grossi disegni a matita che, posizionati sulle due pareti, sembrano quasi guardarsi l’uno con l’altro.
Lasciati rapire, per un istante, dai due personaggi ritratti. Osserva le loro pose e le loro espressioni colorate di grigio. Se ci riesci, vai oltre le loro smorfie.
Poi, prendi tutta la tua giovinezza e, senza paura, chiedi di loro al primo che ti capita affianco.
Chiedi di loro.
E capirai perché sono finiti lì: in due grossi ritratti a matita, sulle pareti dell’angolo opposto alla macchinetta del caffè, nel bar del paese.