La mia mille lire (quando si faceva la salsa)
Il fatto è che te l’aspetti da un po’, la domanda. Forse da troppo. E comunque da troppo tempo prima. Ma se hai sei o sette anni non è che la pazienza può essere il tuo forte. Poi, da quando hai visto in giro tappeti rossi di pomodoro, pentoloni accatastati ed una gran massa di bottiglie capovolte ed ancora vasi, vasetti e barattoli, l’attesa è diventata nervosa.
“Me lo devono dire!”.
Ti si legge, in quella tua faccia innocente ed indisponente. Ma, mano a mano che giorni torridi inseguono altri giorni torridi, aumenta quel misto di nervoso, ansia e paura. Del resto, tutto coincide con l’anno prima. Tua nonna sudata con i capelli raccolti e la veste leggera a fiori colorati con grossi bottoni neri al centro. Il nonno, che ti deve sembrare un colosso dalle mani enormi, sempre a torso nudo, nero di sole, di campagna e di fatica, chino su non si sa bene quali attrezzi. Tuo fratello, ogni volta più scocciato e con sempre più gelatina tra i capelli mandato a comprare buste enormi di roticelli tanto belli e nuovi da volerci giocare su qualche scalinata del vicolo. E poi, il gran via vai di zie milanesi intorno a far soltanto confusione e coreografia per giustificare la loro porzione di bottiglie da portare su.
Ma soprattutto, tu con un anno in più. Da far valere, perbacco!
Ed invece ancora niente. “Avranno preso un altro”, pensi.
“Mio cugino, deve essere mio cugino, ad aver fiutato l’affare!”.
Ti scervelli ed arrovelli nella tua testolina cocciuta. “Ma quel posto è mio!”, concludi per darti coraggio stringendo le tue piccole mani bianche. Eppure, l’ora deve essere arrivata. Finita la festa patronale, messo da parte per un po’ il vestito buono, smontate luminarie e bancarelle … “Non possono rimandare ancora!”. Così, resti seduto sul secondo gradino della porta verde a vetri quadrati della vecchia casa dei nonni, con la testa appoggiata alle mani e i gomiti piantati da lasciar il segno rosso sulle ginocchia sbucciate. Proprio al centro di quella strettele, generalmente vuota e silenziosa ed ora improvvisamente sovrappopolata da gente che parla strano e che neanche conosci bene. Tra le grandi lenzuola bianche appese ad asciugare da una parte e l’altra della scalinata, si sono accampati i tuoi cugini nordici con i loro giochi nuovi che comunque non ti attirano più di tanto. Più in alto, per niente sorpresa dalle novità della stagione, la Commara vestita di nero da capo a piedi, staziona davanti la sua vetrina, seduta in mezzo ad un armamentario di sedie di legno e paglia ed intorno a vecchie stagnarole grandi e piccole, tutte piene di piantine verdi, lucenti e profumatissime. E cuce qualcosa. Cuce sempre qualcosa. Non sembra interessarti neanche u’vasce di fronte. Quella specie di cantina buia con la porta di legno tanto vecchia da reggersi appena, chiusa con quel filo di ferro che ogni tanto, quando nessuno di vede, ti diverti ad attorcigliare e sbrogliare all’infinito senza mai trovare il coraggio di scendere giù e di vedere se davvero c’è quel tale nero e cattivo che tua nonna, poco e spesso, ti nomina quando non vuoi mangiare o la fai arrabbiare. In alto, tra le tegole giallo sporco ed i camini spenti, i gatti oziano ed osservano tutti con distacco felino. Che i meglio sono loro. Oltre le scale e dopo il confine della tua scalinata, giù nella stradina, passano vecchi e ragazzini, donne a piedi con le buste cariche di spesa e bambini su tricicli, biciclette a rotelle e carriole di legno.
Ma, neanche li vedi.
Quando i tuoi pensieri delusi ti portano via, oltre il labirinto di vicoli, scalinate e stradine del borgo vecchio, una voce perentoria e grassa finalmente ti chiama. Non fai in tempo a liberare la testa dalle tue mani che ancora la reggono, che tuo nonno, come uno dei robot di plastica che ti comprano alle bancarelle dell’Incoronata, ti prende e ti solleva da terra per farti atterrare poi sulle sue gambe. Quando la sua faccia è proprio dietro la tua, tanto da poter sentire la sua barba pungerti la pelle rosa, ad un centimetro dal tuo orecchio ti sussurra finalmente:
“Te la vuoi guadagnare mille lire?”.
Vorresti gridare un siiiiii lungo e potente ed invece capisci subito che è una cosa delicata, che deve restare tra uomini.
Una cosa che i tuoi cugini non possono capire e che non deve di certo interessare a quella pettegola che cuce posizionata qualche scalino sopra. Così, col cuore che esplode di gioia, fai un cenno d’intesa a quell’omone con il tuo stesso nome ed i tuoi stessi occhi ed entri a far parte della missione di famiglia. Proprio come l’anno prima.
Poi arriva il grande giorno.
Di buon mattino, dopo aver litigato con tutte le donne della famiglia dalla nonna in giù, il tuo nuovo datore di lavoro viene a prenderti in stanza dove già lo aspetti da un po’, sveglio sul lettone bianco senza lenzuola e coperte.
Come uno dei suoi sacchi grezzi e ruvidi, che usa per trasportare conigli e galline vive, ti prende di botto e, a due metri da terra, ti accompagna verso la strada. Da lì in avanti, saluterete tutti fino all’uscita dal borgo. Lui ed il suo vattente. Che poi saresti tu.
Dopo, a passo un pò più svelto, andrete a prendere il tratturo di terra rossiccia con la striscia verde al centro per raggiungere la masseria, scartare i cani che vi vengono incontro e i gatti che zompano sugli alberi, ed infine, ritrovarvi davanti ad una distesa rotonda, rossa e profumata.
In fondo allo stanzone vi aspettano due sedioline di legna e paglia per iniziare la loro giornata. Una è talmente piccola da sembrare finta. Deve essere per te.
Non appena inizi, ti pare davvero che togliere i pedicine sia una cosa difficile e comunque molto più seria e delicata di comprare i roticelli (come è toccato a tuo fratello) o di lavare le bottiglie, che è cosa da femmine. Tu no. Tu non puoi permetterti distrazioni perché devi prendere i pomodori ad uno ad uno, girarli dal verso giusto senza schiacciarli ed infine staccare quella bella stellina verde che hanno in testa. Poi devi controllare che non te ne capitino di rotti o sfatti, ché ne basterebbe soltanto uno ad in inguaiare tutta la salsa. Insomma, a prendere la masinecoja sono buoni tutti.
Quando le tue manine sono già nere di terra e stanche di lavoro, inizia ad arrivare il resto della ditta. Tuo padre, salito con il trattore fin qua su, inizia a montare uno strano aggeggio sul tavolone. Per un momento, ti sembra di averlo visto qualche domenica prima. Poi, ti accorgi che la manovella non è la stessa che ogni tanto tua madre ti fa girare per farti stare buono, ricordandoti che la pasta fatta in casa non è la plastilina dell’asilo. Tua nonna, invece, cura in prima persona l’allestimento delle stagnarole blu e della grossa caudare di ferro messa al centro dell’altro stanzone. Nelle prime, riversa dolcemente i tuoi pomodori, quasi accompagnandoli al fondo con le mani, per poi lavarli per bene. Nella seconda, li farà bollire più tardi, stando attenta a tenerti lontano.
Ora ci siete tutti. Soltanto tua cugina non è chiamata a partecipare al rito annuale. Lei, che la sera, quando la incontri col ragazzo alle giostre fa finta di non vederti neanche, è rimasta a casa. Dice che nonna non l’ha voluta perché avrebbe fatto uscire la salsa amara. Questa cosa, a dire il vero, non l’hai ben capita. E neanche di importa.
Adesso che il tuo lavoro è bello che finito, non ti resta che guardare da lontano i pomodori cotti entrare in una specie di imbuto per poi uscire salsa da una parte e buccia dall’altra. Tutto intorno, un profumo inebriante – che non ti toglierai mai più dalla testa per tutta la vita – copre le voci, il caldo ed il sudore.
In seguito, dopo aver a lungo giocato nei campi incimentando cani e gatti, conigli e galline, puoi riavvicinarti alla base. Ora, sulle stesse sedie di prima, tuo padre ed il padre di tua madre col martelletto in mano picchieranno forte sulle bottiglie colpendo una formina di ferro con dentro i roticelli colorati.
Dopo, non capirai perché le bottiglie di vetro verde e marrone scuro con dentro pomodoro liquido ed una foglia di basilico andranno a finire, anche loro, a cuocere nel grande pentolone sotto l’occhio severo di nonna.
Anche questa cosa, comunque, ti interessa poco. Vuoi perché il tuo, anche quest’anno, l’hai fatto; vuoi perché è di nuovo tempo di giocare con fratelli e cugini, avventurandosi nei campi. Vuoi perché, più semplicemente, non è che riesci proprio a stare fermo e a guardare gli altri.
A sera sei talmente sporco da costringere tua madre a metterti a mollo nell’acqua calda. La stanchezza e la felicità della lunga giornata ti fanno passare di mente la voglia di andare in piazza ed anche la tua brava mille lire.
Il pensiero torna qualche giorno dopo quando, aizzato dallo zio forestiero, inizi – senza averne fino in fondo il coraggio – a cercare di ricordare al nonno il patto dei giorni prima. Lui, che già quando vorrebbe sentire ci riesce poco, fa come se niente fosse, senza dare manco la soddisfazione di una qualsiasi risposta. Il fatto è che a te quelle mille lire servono maledettamente. Soltanto per pochi giorni ancora ci sono le giostre… possibile che nonno l’abbia dimenticato?
Mentre, deluso, pensi ad entrare in sciopero da ogni forma di servizio ai grandi (“Li voglio vedere mo’ che mi mandano a comprare le sigarette!”), la tavola è già imbandita alla perfezione. Tutti i parenti, anche quelli che non hanno fatto niente, sono invitati ad assaggiare la salsa nuova. Le femmine, apposta per l’occasione, hanno fatto anche le orecchiette. Il profumo è come quello dei giorni precedenti, forse solo meno intenso.
A fine mangiata, quando la tovaglia è stata colorata da tutto ed è piena di bucce di melone d’acqua e di nocelle, tuo nonno, seduto all’altro capo e circondato da bicchieri e bicchierini, ti chiama perentorio. Attraversando parenti che si chiacchierano addosso e cocci in mezzo alla casa, arrivi di malavoglia accanto al capofamiglia.
Un secondo dopo, a capo tavola con lui, puoi davvero osservare tutti i convitati. Tuo zio con la sigaretta in mano e il mezzo bicchierino di Fernet. Dall’altra parte, la moglie cerca ancora di far mangiare qualcosa al più piccolo della comitiva, imprigionato dentro un seggiolone di legno chiaro. Gli altri cugini, più grandi di te giusto quel poco per escluderti da tutto, hanno già tirato fuori le macchinine che fanno girare sul tavolo tra bottiglie di aranciata mezze vuote e caraffe di vino tutte vuote. Solo tua madre e la madre di tua madre sono già in piedi per portarsi avanti con qualche servizio. E mentre tutti parlano con tutti, ti pare evidente che tua cugina (quella che quando la incontri la sera manco ti saluta) vorrebbe essere da tutt’altra parte. Ma neanche questa volta capisci il perché.
Poi, spostandosi su di un lato, tuo nonno mette la mano in tasca per tirare fuori un pezzo di carta piegato in mezzo. Ora che lo stringe nella tua mano piccola e bianca, capisci che è la mille lire.
La tua mille lire.
Giusto il tempo di aprirla per controllare che sia davvero lei e … l’odiosa televisione della domenica pomeriggio ti sveglia di botto. Nella stanza sembra esserci ancora quell’odore meraviglioso e caldo di salsa, ma non il chiasso di famiglia che avevi lasciato.
Allora per un attimo ti illudi. Metti la mano in tasca. Cerchi al buio, ma non trovi carta. Solo una moneta.
È un euro, purtroppo.
E pensi che un futuro bello come il passato ti basterebbe. Eccome se ti basterebbe.
(*dedicata ai miei nonni)