Ho sempre pensato che un libro è il regalo perfetto, ma più difficile (a me piacciono le cose difficili).
Perché può lasciare un segno meglio e più di qualsiasi altra “cosa”, può aprirti orizzonti sconosciuti, può durare per sempre ed arrivare proprio al momento giusto. Ma nasconde anche una certa dose di rischio perché far appassionare un lettore ad un libro che non ha scelto non è una cosa semplice. Perciò per regalare un libro ci vuole grande sensibilità, una profonda sintonia con il destinatario ed una conoscenza approfondita. Insomma, bisogna essere amici o persone care, sennò non funziona.
In questo mi sento fortunato. Ho appena terminato l’ultimo regalo ricevuto da persone di cui sopra: Vivere per qualcosa, scritto a tre mani da Luis Sepulveda, Carlo Petrini e Josè Pepe Mujica (mica tre qualsiasi!) per Guanda edizioni.
Nella conversazione avuta nell’aula magna della Statale di Milano giusto un anno fa, questi tre grandi personaggi hanno toccato temi diversi e disparati, dallo sviluppo sostenibile, all’attenzione per l’ambiente, passando per la solidarietà, la ricerca della felicità ed il senso più vero e autentico di “fare politica”.
Illuminanti, a tal proposito, le parole di Pepe Mujica, della “pecora nera al potere” che ha cambiato l’Uruguay e la politica: “la vita militante in campo sociale, in campo politico, per arrivare a un uomo migliore, a una umanità migliore, per quanto ardua e piena di difficoltà, non è una vita infelice, è una vita volta a ottenere il meglio da noi stessi”.
Ed ancora: “Cosa ci propongono le società contemporanee? Vivere per accumulare soldi, cambiare auto, avere scarpe alla moda, ho comprato questo, ho comprato quello, sono stato qua, sono stato là e quando provi a ricordare cosa hai fatto nella vitta sei già un vecchio con i reumatismi e sei finito…”.
Invece: “il mio compito è quello di parlare ai giovani esortandoli alla militanza sociale, alla militanza politica, a impegnarsi nella vita perché non si può essere felici senza impegno. Bisogna vivere per qualcosa, non per il solo fatto di essere nati!”.
È questo il punto.
E qui che ho trovato in questo libro di “Tre comunisti che una volta mangiavano bambini ed adesso raccontano favole” (come in apertura scherzosamente presenta i lavori dell’incontro Carlo Petrini), un filo conduttore, solo apparentemente sorprendente, con altre letture ed esperienze diversissime che mi son rimaste ugualmente dentro.
Come quando da bambino mi fecero leggere il Gabbiano Jonathan Livigston di Richard Bach che, nella tradizione del romanzo di formazione e pur tra le sue molteplici interpretazioni, (in)segnava la possibilità di intraprendere una nuova vita, dove si vive (e si vola) non solo per mangiare, ma anche per godere “della luce e del calore del sole, del soffio del vento, delle onde spumeggianti del mare e della freschezza dell’aria”. Una specie di inno alla vita vissuta non per accumulare beni materiali, ma per collezionare esperienze ed emozioni.
Oppure come il recente incontro con la figura del giovane beato Piergiorgio Frassati, cui è dedicato il sentiero che abbiamo realizzato su Monte Cornacchia, che con il suo “vivere e non vivacchiare” ancora oggi, ad oltre novanta anni dalla sua morte, invita i giovani alla pienezza della vita, a spendere ogni attimo per ciò in cui si crede, a non sprecare tempo prezioso.
Ed allora, non è forse vero che partendo da punti di vista diversi (qualcuno direbbe “opposti”) si arriva esattamente alla stessa conclusione? Vivere per qualcosa!
Se c’è un messaggio che dovrebbero dare religione, politica ed istituzioni, non è questo?
In un mondo sempre più diretto verso l’indifferenza e l’egoismo, prima di ogni altra cosa, va salvaguardato, tutelato ed esaltato l’impegno sociale ed il lavoro di chi – per dirla ancora con Petrini – fronteggia coloro che costruiscono barriere per chiudersi nel loro benessere restando ciechi alla realtà del mondo.
Il vero pericolo non è l’idea diversa. È il niente.
E qui, grazie a questa illuminante lettura, mi è tornato in mente anche quando, da ragazzino, restai affascinato da La storia infinita dii Michael Ende grazie al film dove il ragazzino Atreyu cavalca Falkor, il grande Fortunadrago volante a metà tra un cagnone bianco ed una pecora gigante.
Nel dialogo più significativo del libro, Gmork, il pauroso lupo mannaro schierato dalla parte del Nulla, annuncia soddisfatto ad Atreyu la prossima morte del regno immaginario di Fantasìa: “perché la gente ha rinunciato a sperare. E dimentica i propri sogni. Così il Nulla dilaga“.
“Che cos’è questo nulla?“, risponde uno spaventato Atreyu.
“È il vuoto che ci circonda – spiega il Lupo – “È la disperazione che distrugge il mondo e io ho fatto in modo di aiutarlo“.
“Ma perché!?“, ribatte incredulo Atreyu.
“Semplice” conclude Gmork: “Perché è più facile dominare chi non crede in niente”.
Vivere per qualcosa, dunque. Per fronteggiare l’avanzata del Nulla.
(E tutto torna nella mia mente).